Rispetto al comportamento violento si contrappongono immediatamente due logiche diverse: quella punitiva e quella riabilitativa. Da una parte si sostiene che l’applicazione della pena favorisca la responsabilizzazione e l’abbandono del modello delinquenziale; dall’altra si sostiene che ogni sforzo va indirizzato verso il recupero di soggetti ancora immaturi che hanno bisogno di essere educati alla responsabilizzazione evitando l’ingresso troppo precoce nel sistema penale.
La distinzione tra pena e cura affonda le radici nella possibilità di discriminare tra normalità, alla quale applicare pene, e patologia, da indirizzare ad un sistema di cura. Spesso, tuttavia, si confonde il concetto di responsabilità con la capacità di intendere e di volere. Raramente i ragazzi violenti non sono capaci di intendere e di volere, ma hanno forti ritardi nello sviluppo dell’assunzione di responsabilità, se per responsabilità si intende un atto soggettivo che implica la capacità di assumersi un impegno all’interno di legami sociali positivi, di riconoscere le conseguenze del proprio comportamento, di essere disponibile a sentire la colpa e quindi di essere disponibile a riparare gli errori commessi.
Chi vorrebbe abbassare la soglia della imputabilità non considera che, a fronte di un’apparente maggiore maturità fisica dei ragazzi d’oggi, siamo in realtà di fronte ad una situazione sociale che ritarda enormemente i processi di autonomia e di responsabilizzazione rispetto ai loro coetanei di ieri.
Per la soluzione del problema nelle scuole ci si dovrebbe affidare ad una politica di prevenzione che si avvalga della collaborazione dei genitori e degli stessi studenti.
Invitare i ragazzi a dare la loro definizione di bullismo e sulla base dei loro contributi arrivare ad un chiarimento dei punti cruciali (se i bambini diventano maggiormente consapevoli delle dinamiche di potere connesse al bullismo, potranno anche aiutarsi a vicenda ad uscire dai ruoli patologici di vittima e di carnefici).
Inoltre, la conoscenza di sé e degli altri è da considerarsi come un prerequisito per sviluppare la capacità di empatia, l’autocontrollo, il rifiuto della violenza. Far riconoscere ai ragazzi le proprie emozioni, i propri sentimenti, saperli distinguere, dare loro un nome significa poterli capire, comunicare e, in una certa misura, imparare a controllarli. La comunicazione permette poi di conoscere l’altro e la conoscenza spesso diventa strumento di condivisione. I giochi di fiducia, in questo caso, possono servire a far riflettere i ragazzi sui rapporti interpersonali e ad aumentare il clima di responsabilizzazione e di fiducia nel gruppo attraverso esperienze vissute a livello corporeo in cui più facilmente emergono le emozioni profonde.
Nei confronti delle situazioni conflittuali e dei comportamenti aggressivi, si possono proporre strumenti per far emergere gli episodi di violenza e tutti quei comportamenti che generano sofferenza, al fine di riconoscerli come tali e proporli all’attenzione: in questo modo si potenzia la capacità di “vedere” e “ascoltare” e la sensibilità verso il problema. I giochi in questo caso hanno lo scopo di favorire la conoscenza dell’ “altro” e delle sue emozioni e la capacità di identificazione come strumento per inibire l’aggressività.